Le cose si succedevano rapide, una dopo l’altra, e si aveva l’impressione che il tempo volasse, al punto che non ci si ricordava più se si era vecchi o giovani.
Flannery O’Connor, Tutti i racconti (Bompiani, 2011), pag. 63
Le cose si succedevano rapide, una dopo l’altra, e si aveva l’impressione che il tempo volasse, al punto che non ci si ricordava più se si era vecchi o giovani.
Flannery O’Connor, Tutti i racconti (Bompiani, 2011), pag. 63
Circa 8-9 mesi fa, un cliente appena tornato da una fiera mi ha detto: “Giovanni, in fiera era pieno di nostri concorrenti che avevano fatto la versione del loro sito per iPad. Una figata! Usavano il loro tablet e il loro sito si vedeva benissimo. Quand’è che facciamo anche noi la versione del sito per iPad?“.
Giuro che non avevo capito. Cosa intendeva dire dicendo: una versione del sito per iPad?
Per uno smartphone la cosa poteva anche avere un senso: le dimensioni ridotte dello schermo ti obbligano a ripensare l’interfaccia grafica, ma l’iPad è grande e con un’ottima risouluzione. Ci può stare benissimo un sito di normali dimensioni. Così, per capire, usando l’iPad di un collega sono andato sul sito di questo cliente e ho verificato che il suo sito si vedeva e si usava benissimo. Belle immagini, buona lettura, semplice navigazione delle gallerie fotografiche. Andava tutto.
Si, è vero ci sono alcune cose che, pensate per l’uso di un mouse, non rendono tanto bene. Per esempio l’on-mouse-over, cioè quello che succede posizionando il puntatore in un certo punto, ad esempio un link, ma senza cliccare. Su l’iPad, il mouse non c’è, si usa il dito, che o tocca o non tocca. Non esiste la condizione “dito posizionato sopra un elemento cliccabile, ma che non tocca lo schermo”.
Ma a parte queste minuzie, un sito per iPad, non è altro che un sito normale visto con un tablet di marca Apple. Ma che si vede.
Ho rassicurato il cliente e gli ho detto: guarda che il tuo sito si vede già sull’iPad, non c’è bisogno di farci niente. Tant’è vero che il cliente, dopo qualche mese, mi ha raccontato dell’enorme successo riscosso dal sito quando, durante una riunione di Confindustria, ha tirato fuori il suo iPad e ha fatto vedere il suo sito e le sue meravigliose produzioni agli industriali presenti che hanno cominciato a passarsi il tablet tra di loro.
E così, ho accantonato il “problema” di fare i siti per l’iPad. Io non ne avevo bisogno e i miei clienti neppure.
Qualche giorno fa, sono capitato sul sito di un mio concorrente, ho visto che proponeva la realizzazione di siti “per iPad”. Mah… chissà, forse si è messo a fare le Apps, ho pensato.
Poi ho guardato il portfolio dei suoi clienti e ho visitato alcuni dei loro siti. Bellissimi, niente da dire, ma avevano tutti una caratteristica comune: un uso ultrasovrabbondante di Flash. Splash page che fanno da tappo agli spider dei motori di ricerca (così il sito diventa invisibile per chi lo cerca), filmati invece di pagine html, cacce al tesoro per capire come proseguire, effetti speciali di animazione, visivi e sonori. Quelli di più recente fattura erano anche ben strutturati, ma comunque lasciavano Flash parti fondamentali per la comprensione del contenuto. Ma comunque Flash, Flash, Flash…
E improvvisamente ho capito! Fare una versione del sito per iPad è una azione da svolgere in due parti.
Per prima cosa si fa un sito di merda, usando una tecnologia trendy (il Flash), esteticamente bello da vedere, ma – di solito – assolutamente inusabile come strumento internet. Siccome è figo, lo si vende a carissimo prezzo.
Poi, siccome la moda impone un device (l’iPad) che il Flash non lo vede neanche col binocolo – invece di scusarsi con il cliente per avergli fatto un sito tanto figo ma invisibile – gli si vende a caro prezzo un secondo sito, che non usa Flash, e lo si chiama sito per iPad!
Così, la web agency non solo ci guadagna 2 volte, ma dà pure l’idea di essere sempre sul pezzo, di leggere il futuro, di anticipare le mode…
Sono proprio duro di comprendonio.
Le immagini provengono da questo bell’articolo di Cesar Andavisa, che non conosco ma che dev’essere molto meno duro di comprendonio del sottoscritto.
Ieri sera sono andato al cinema con Silvia. Una volta ci andavamo spesso, ma negli ultimi anni sono rare le volte che riusciamo a riservarci una serata tutta per noi. Perciò il film DEVE essere bello, altrimenti uno poi si incazza pure.
Ieri sera abbiamo visto “Io sono Li”, di Andrea Segre. Un bellissimo film, già passato in sala diversi mesi fa, riproposto dopo che l’attrice protagonista Zhao Tao ha vinto il David di Donatello come migliore attrice.
E’ la storia di un’immigrata cinese che lavora letteralmente come una schiava per poter far venire in Italia il figlio di 8 anni. Da Roma, dove fa l’operaia, viene spedita a Chioggia a gestire un bar. Ovviamente impara a conoscere alcuni frequentatori, tra questi Bepi, detto il poeta per la sua abilità nel rimare, un pescatore immigrato 30 anni prima a Chioggia dalla Jugoslavia. E’ un bel rapporto di amicizia quello che nasce tra i due, ma non è visto bene nè dai chioggiotti, nè dai cinesi. La storia è tutta qui, ma il film è bellissimo.
Sono bravi gli attori: Roberto Citran, l’avvocato: Marco Paolini, Coppe; Giuseppe Battiston, Devis e poi Rade Šerbedžija (che ricordavo già interprete di Prima della Pioggia, del 1994), Bepi il poeta. Ma ho apprezzato soprattutto la fotografia, che ben racconta l’amosfera speciale di Chioggia, una Venezia minore in cui pochi hanno avuto il coraggio di ambientare un film. Ma Segre lo fa, e lo fa bene, per esempio nella scena in cui l’osteria è piena d’acqua (sì, anche a Chioggià c’è l’acqua alta) e i frequentatori non battono ciglio per questo questo fenomeno naturale.
E’ un film da gustare al cinema, per il momento accontentatevi del trailer, di un filmato con alcuni estratti, di qualche foto e di un’intervista a Zhao Tao
A volte vengo preso da dei rigurgiti di ignoranza.
Capita molto spesso quando, per esempio, i figli ti chiedono un aiuto a scuola. Fino alle elementari e alle medie ancora ancora, ma alle superiori… una tragedia.
Papà, come si risolve questa equazione? Papà, ma il neoclassicismo quando è iniziato? Papà, non riesco a risolvere questo integrale, mi dai una mano? Mi spieghi la differenza tra present simple, present perfect e present continuous?
Cacchio! Eppure, quasi sempre, si tratta di cose che ho studiato anch’io, che sapevo a menadito, che mi facevano sentire sicuro del mio sapere, ma che ho dimenticato. A volte, si tratta di cose che uso ancora, ma solo in pratica, e mi accorgo di aver dimenticato si substrato teorico, le definizioni.
E allora ecco che arriva il rigurgito di ignoranza. Lo stomaco si contrae, la bocca diventa acida, le parole si impasatno tra loro, si balbettano scuse. Uno si sente una merdaccia e si dispera per aver buttato una conoscenza già acquisita e padroneggiata e allora, come dal rigurgito di vomito arriva il proposito di ingozzarsi di meno, dal rigurgito di ignoranza arriva il proposito di riprendere in mano i libri e ristudiare qualcosa.
Se questo qualcosa da ristudiare ha poi un’utilità pratica per il Giovanni che sono adesso e non solo per l’orgoglio ferito del bravo studente di 30 anni fa, allora lo stimolo diventa fortissimo.
E’ quello che mi è successo quando ho visto il titolo di questo libro: La matematica dei social network. Una introduzione alla teoria dei grafi. Forte!, ho pensato, visto che per lavoro mi occupo di promozione su Internet, di produzione di contenuti per siti e social network, riprendere in mano qualche cosa di teorico certamente male non fa. E già mi immaginavo a dedicare un po’ del mio tempo per rispolverare qualche vecchia conoscenze, per apprendere qualcosa di nuovo, motivato non dall’esito di un esame, ma da qualcosa di più concreto.
Così, molto fiducioso, sono andato in libreria e ho chiesto se avevano il libro. Ce l’avevano. Come mia abitudine non l’ho comprato a scatola chiusa, ma l’ho sfogliato e ho cercato di immaginare la sua reale utilità. Il metodo più efficace che conosco è quello di guardare l’indice. Dall’indice, dalla struttura di un libro, si capiscono molte cose.
Perciò cerco l’indice – questo libro ce l’ha, è già una buona partenza – e cerco di capire in che modo quanto trattato nel libro può avere una ripercussione pratica diretta sul mio lavoro.
Argh, amara sorpresa! Si parla di isomeri chimici, di percorsi minimi (i famosi ponti di Koenigsberg), di grafi, di sudoku, di colorazione di mappe… ma di social network neanche l’ombra, tranne che nel titolo e nell’ultima di copertina.
Ma come? Un libro che si intitola La matematica dei social network praticamente NON parla di social network, di Facebook, di Twitter… ma com’è possibile?
Possibile che il matematico autore, Peter M. Higgins, abbia voluto sfruttare la parola del momento, social network, per vendere qualche copia in più?
Mi sembra strano. I matematici sono persone serie, di solito. E quindi?
Vado a controllare. Il titolo originale del libro è: Nets, Puzzles, and Postmen: An Exploration of Mathematical Connections, di social network neanche l’ombra. E il libro è pure di tre anni fa…
Insomma, è stato l’editore, Dedalo Edizioni, a cercare di sfruttare il momento felice dei social network per aumentare un po’ le vendite di questo libro.
Dedalo! Ma vaffanculo, va!
La contestualizzazione degli annunci produce spesso effetti umoristici. La pagina riportata qui sotto riguarda un aticolo, in cui si parla parla dell‘amanita falloide, fungo velenoso, che sembra abbia la capacità di contrastare la crescita o addirittura distruggere alcuni tipi di cellule tumorali.
Il magico meccanismo di contestualizzazione propone un buono acquisto per un ristorante.
Qualche temerario si arrischierà ad ordinare dei funghi?